domenica 29 gennaio 2012

Due settimane dopo

Sono già passati 15 giorni dal nostro rientro e abbiamo ancora negli occhi e nel cuore quel Paese e quelle persone.
Nonostante tutto quello che è successo in queste due settimane, che ha assorbito gran parte del nostro tempo e anche una buona parte di energie.
Prima le cose piacevoli: gli incontri, attesissimi, con figli, parenti ed amici. I racconti, le domande, gli approfondimenti.
Approfondimenti soprattutto per noi due.
Cosa abbiamo trovato?
Cosa ci portiamo a casa?
Siamo pronti a tornare, se ci verrà chiesto?
Abbiamo trovato un Paese prostrato dalla sua storia, che fatica a riprendere una via di sviluppo sociale (ed economico) stabile; che fatica a convincere gli altri delle sue potenzialità, soprattutto umane; che ha bisogno di ottenere la fiducia degli altri, a volte anche di chi si spende per aiutarlo. Queste fatiche sono dimostrate anche da quanto successo proprio nell'ultima settimana dello scorso anno: un tentativo di colpo di stato avvenuto il 26 dicembre, risolto nella stessa giornata, e del quale, come spesso accade in questi casi, non si ha una motivazione precisa. Un tentativo di colpo di stato di stampo politico, come già avvenuti nel recente passato? O, come ipotizzato da alcuni, un "regolamento di conti" all'interno delle forze armate, magari collegato a corruzione e droga?
Ci portiamo a casa la consapevolezza di cosa vuol dire "terzo mondo". Leggerne o sentirne parlare fornisce senza dubbio una buona informazione; toccare con mano, seppur marginalmente, è allo stesso tempo scioccante e spiazzante. Il confronto diretto fra il nostro mondo e "il terzo" fa comprendere quanto le cosiddette nostre difficoltà o paure siano spesso sopravvalutate. Che non vuol dire che le nostre difficoltà non esistono, anzi! Ma che gli eventuali sacrifici chiesti per poterle superare sono sopportabili: c'è grossa differenza fra rinunciare a un pasto al giorno o rinunciare a due settimane di ferie. Nel secondo caso si tratta di difendere, giustamente, diritti, principi, equità, stili di vita e tante altre cose importanti; nel primo caso si tratta di difendere la sopravvivenza!
Ci portiamo a casa un'esperienza unica, che ha modificato il nostro modo di pensare e, in parte, di agire.
Siamo pronti a ripartire? Sì! Aspettiamo, con ovvia ansia e impazienza, che ci venga dato l'ok. Non dipende solo da noi, altrimenti questo post parlerebbe di valigie e prenotazione di biglietti aerei. Secondo il modo di pensare africano: partiremo quando sarà il momento. E quando sarà il momento? Quando partiremo.

domenica 15 gennaio 2012

Ultimo giorno

15 gennaio 2012 - Siamo a Bissau, precisamente a Takir appena fuori città, nel centro Pime della Guinea-Bissau.
In attesa di essere accompagnati all'aeroporto per il ritorno in Italia.
Ieri siamo andati nella Bissau vecchia, al porto.
Purtroppo in ambiente spettrale: la città è deserta, negozi chiusi, nessuno in giro. Anche il porto, che ci hanno detto essere abitualmente pieno di gente e di venditori di pesce, è completamente vuoto e deserto.
A fine settimana scorsa è morto il presidente della Guinea-Bissau, ricoverato in Francia da più di un mese per grave malattia.
Ieri è stato il giorno di rientro della salma e oggi si sono tenuti i funerali. Quindi è stata una settimana di lutto nazionale; ieri hanno trasmesso per televisione il trasporto dall'aeroporto alla residenza ed è stato dichiarata giornata di chiusura di tutti gli esercizi commerciali e i posti di lavoro.
Oggi parecchie strade chiuse per il passaggio non solo del corteo funebre, ma anche per l'arrivo delle diverse delegazioni di paesi stranieri.
Alcuni si sono dichiarati sorpresi del fatto che persone, a volte mancanti dell'essenziale come il cibo, possano rinunciare a un giorno di lavoro o possano sobbarcarsi il costo di un trasferimento dalla loro città o tabanka per venire in capitale a rendere omaggio al presidente morto.
Eppure questo è, a mio parere, il segno di un paese che sta cercando la propria identità e si identifica in chi lo rappresenta e in chi, come il presidente appena morto, continuava a diffondere un messaggio di pace e di convinzione nel futuro. Che è concetto differente dalla speranza: è la certezza che i problemi si possono superare con la volontà e l'unione di tutti in un obiettivo comune.
E credo che questo sia anche l'obiettivo di chi viene in questo paese a svolgere una qualsiasi attività di supporto: riconoscere e accettare il loro obiettivo e adeguarsi ai loro metodi per raggiungerlo. Imparando dagli errori e ricominciando per altre strade, fino a imbroccare quella giusta.
In teermini egoistici, speriamo però che la cerimonia funebre e le sue conseguenze non abbiano risvolti negativi sui tempi della nostra partenza: la coincidenza a Lisbona per Malpensa parte 1 ora e mezza dopo il previsto atterraggio dell'aereo Bissau-Lisbona. Se questo volo dovesse, per qualsiasi motivo, partire in ritardo, potremmo perdere il volo di Lisbona e arrivare a Malpensa, anzichè in tarda mattinata, a pomeriggio inoltrato.
Sappiamo che troveremo i nostri ragazzi ad aspettarci e ringraziamo chi si è offerto di venirci a prendere. Dobbiamo anche riprendere possesso della nostra auto, poi arriveremo a Candia.
Per ora?
Lo sapremo fra non molto.
A presto.

venerdì 13 gennaio 2012

9 gennaio 2012

Come previsto, andiamo a Catiò. Domingo, l’autista del Vescovo, ci porta fino a Bambadinca, dove ci incontriamo con Silvia e Monica che ci porteranno da padre Maurizio.
La strada è simile a quella per San Francisco, ma migliore. Sono necessarie comunque quasi 4 ore e arriviamo giusto per il pranzo.
Padre Maurizio non c’è; era a Bissau e il suo arrivo è previsto fra poco o nel primissimo pomeriggio. Invece, arriverà per cena.
E l’ennesimo esempio del tempo africano: bisogna scordarsi gli orologi. Immaginate questo colloquio: “quando ci vediamo?” “quando arrivo” “e quando arrivi?” “quando ci vediamo”.
C’è padre Fabio che dopo pranzo (e dopo il riposo pomeridiano) ci accompagna in visita alla scuola locale, frequentata da circa 250 alunni suddivisi in due turni mattina-pomeriggio e su tre classi: una quarantina di studenti per classe.
Padre Fabio ci introduce in ogni classe, ci presenta con belle parole e chiede per noi il permesso di scattare qualche fotografia. Come in tutte le scuole del mondo, si vedono visi attenti e pronti, altri un po’ più apatici e altri ancora con la classica espressione del “cosa ci faccio qui?”.
E l’ora dell’intervallo. Ma non i nostri tradizionali 10/15 minuti. Circa un’ora.
L’intervallo viene utilizzato anche per fare una sostanziosa “merenda”, che per molti di questi studenti diventa cena e per alcuni l’unico pasto della giornata. La merenda viene fornita dalla scuola e consiste in un misto di riso e farina cotti in acqua e distribuito in ciotole che ogni studente porta con sé. Si crea una fila ordinata e molto lunga davanti ad un piccolo capanno, al cui interno una donna guineana, volontariamente, ha cucinato la “merenda” ed ora la distribuisce. La scuola è pubblica, ma autogestita: un comitato del villaggio/villaggi gestisce gli aspetti organizzativi e amministrativi della scuola, con l’aiuto dei missionari. Direttore e professori sono guineani. Anche qui esistono professori di ruolo e professori a contratto (i nostri precari). Anche qui i precari non hanno vita facile. La “merenda” è una forma di incentivazione alla frequenza della scuola: sapendo che i figli otterranno almeno un pasto, molti genitori inviano più facilmente i loro figli a scuola, anche le femmine. Poche di loro, però, arrivano conseguire il diploma. La giustificazione ufficiale è che le donne sono più negligenti; molte di loro, invece, sono già destinate al matrimonio prima del termine degli studi. Senza modificare tale tradizione, i missionari cercano di convincere le famiglie che il matrimonio non impedisce la frequenza scolastica. I risultati per ora sono scarsi, ma qualcosa si muove.
Poi ci accompagna all’asilo, tenuto da suore. E’ un’altra scuola, parificabile alle nostre elementari, privata. Bambini meglio vestiti, ma tradizione di “merenda” identica.
Nella struttura delle suore si fa anche informazione sanitaria e nutrizionale. Quindi formazione su quali siano gli alimenti più sani a seconda dell’età e formazione su come riconoscere i sintomi delle malattie più frequenti e come intervenire in prima battuta.
Come tutte le strutture delle suore, anche questa è molto ben tenuta e ordinata.
Rientro a casa e conoscenza di Giovanni, 29 anni, in Guinea-Bissau ormai da quasi 8 anni. Parla correntemente il portoghese, il criolo e il dialetto balanta, oltre a un piacevolissimo siciliano. Cura la “ponta” (tenuta agricola) della missione, è espertissimo di agricoltura, conosce il paese molto più di molti missionari, si arrangia (bene) anche con lavori pratici, dall’elettricità all’idraulica all’edilizia. Nella missione è stata appena inaugurata una biblioteca. L’edificio, un rettangolo di sei metri per dodici, suddiviso in tre ambienti, è stato costruito dai missionari, con mattoni fabbricati a mano da loro stessi, seguendo le istruzioni di Giovanni.
Le chiacchierate fatte con lui mi hanno fatto scoprire e capire alcuni aspetti non palesi della Guinea-Bissau.
Ci seguirà, il prossimo 11 gennaio, a Bafatà per impegni personali e avremo ancora modo di approfondire alcuni argomenti molto utile per capire Paese e situazioni.
Intanto è arrivato anche Padre Maurizio e possiamo metterci a tavola per la cena.
Domani, visita alla ponta e alle sue coltivazioni e visita alla scuola di cucito.
Poi, rientro a Bafatà, un paio di giorni per chiacchierare approfonditamente con il vescovo e tirare le somme della nostra visita.
Quindi, trasferimento a Bissau il 13 nel pomeriggio, visita della città e della radio Sol-Mansi, diretta da padre Davide Sciocco e domenica sera approdo all’aeroporto per il nostro ritorno in Italia.
Ci auguriamo che sia un ritorno temporaneo e che, a Dio piacendo, possiamo tornare presto qui.
Arrivederci in Italia.

5 gennaio 2012

Oggi è il giorno del picnic con i guineani che ci ospitano.
Gli italiani di Caboxangue ci hanno fatto sapere che non saranno presenti, per lieve malattia di due di loro. Preferiscono accertarsi che i disturbi non siano prodromi di qualcosa di serio e porteranno i loro compagni all’ospedale per le visite del caso.
In macchina percorriamo una decina di chilometri prima fra le piantagioni di cajù  e poi in mezzo alla foresta e arriviamo in riva al “Rio”. Non è un fiume, ma un’insenatura molto stretta, simile a un fiordo, nella quale si insinua il mare.
Lì è già presente, dalla notte, il pescatore che fa il suo normale lavoro e al quale è stato prenotato il pesce per il nostro pranzo.
La pesca è stata molto favorevole. Su un alto letto di rami secchi, costruito sopra un fuoco alimentato da altra legna, con poche fiamme e molto fumo, sono deposti una trentina di pesci di medie dimensioni. Si stanno lentamente affumicando, in modo da poterli conservare per il viaggio che dovranno fare fino al mercato più conveniente, dove saranno venduti senza l’assillo che vadano a male.
Appoggiati per terra, un’altra trentina di pesci di differenti dimensioni. Ce ne sono un paio che hanno lunghezza di circa un metro, altri, la maggioranza, simili ad orate o cernie, con peso medio di un chilo/un chilo e mezzo. Molto carnosi, con squame grandi quanto l’unghia di un pollice. C’è anche una piccola razza.
I guineani scelgono gli esemplari più adatti al nostro picnic, in totale una mezza dozzina, e incominciano a pulirli.
Le donne, intanto, preparano i bracieri. Tutto viene preparato lì sul posto: il riso, la pasta al sugo, il pesce. Le uniche cose portate da casa: bibite e acqua fresca.
Naturalmente, noi esploriamo il luogo e scattiamo fotografie (ve le faremo vedere al nostro ritorno!).
Il posto scelto per il picnic è lontano una cinquantina di metri dal bagnasciuga, sotto l’ombra di un poilon e di un mango. Il posto è utilizzato abitualmente dalle due famiglie e lì vicino c’è un vecchio container, dal quale vengono presi tavolini e sedie per quasi tutti.
L’ora è quella della bassa marea. Fra bassa e alta marea la linea del bagnasciuga varia di una ventina di metri. Proviamo ad arrivare all’acqua, ma è molto difficoltoso. Bisogna indossare sandali legati ai piedi: la fanghiglia è tale da ricoprire a volte l’intero piede e camminare scalzi non è consigliabile per la presenza di valve rotte di ostriche, molto taglienti. Provare ad addentrarsi con semplici ciabatte è un’illusione: fatti pochi passi, la ciabatta resta incollata al terreno e il piede non riesce a sollevarla. Per questo sono indispensabili sandali chiusi. Il pescatore, ovviamente, calza degli alti stivali. I bambini, invece, corrono a piedi nudi, come se niente fosse.
I più esperti sono già in acqua: fondale basso, molti metri da percorrere prima di arrivare a non toccare il fondo, distanza della riva opposta di circa trecento metri. Credo che, riuscendo ad entrare in acqua, si potrebbe arrivare dall’altra parte senza grosse difficoltà. Però c’è una discreta corrente che spinge verso l’interno. 
Noi italiani, escluso padre Lucio, rinunciamo al bagno.
La riva è piena di mangrovie e la conformazione del terreno dimostra che, secondo le condizioni climatiche, l’alta marea o eventuali mareggiate possono addentrarsi anche di 50/70 metri. Questa fascia è piena di conchiglie, rimaste sulla spiaggia dopo il ritirarsi del mare. I guineani evidentemente a volte fanno un po’ di ordine: in alcuni punti, infatti, ci sono monticelli di conchiglie, larghi 5/6 metri e alti circa mezzo metro.
Oltre alle mangrovie, che vivono proprio in riva al mare e sopportano l’acqua salata, a chiazze vi sono tappeti di piante grasse e altre erbe. Poi ricomincia la foresta, con piante di ogni tipo e di ogni grandezza.
Sui bracieri stanno arrostendo i pesci, tagliati in tranci per maggior comodità. Ogni trancio è spesso tre/quattro dita. Incomincia ad esserci un po’ di impazienza e di acquolina in bocca.
Il pranzo è pronto, il pesce è ottimo, sodo e saporito, la compagnia è eccellente, il posto è inimitabile, il tempo stupendo.
Normale abbocco pomeridiano, ricerca dell’ombra e della posizione più comoda, bimbi piccoli che vengono accomodati all’ombra e dormono beatamente.
Intanto sale l’alta marea e l’acqua copre la parte di spiaggia che prima era più cedevole e fangosa. Forse si può riprovare ad entrare in mare.
E in effetti ci riesco. Anche l’acqua è piacevole, inizialmente freddino, ma poi accettabilissima. La corrente si fa sentire, bisogna muoversi sempre per restare in linea con il punto di approdo. In acqua, oltre a me, ci sono padre Lucio, Enrico e i bambini. Sono quelli che si trovano meglio.
La canoa del pescatore è un tronco tagliato a metà, scavato e sagomato. E’ senza dubbio il sistema più economico e più immediato per avere un mezzo utile alla pesca. E non è certamente arretratezza. Le reti, infatti, sono di nylon con galleggianti in plastica. Ma la canoa è affascinante: affusolata, con i segni del machete sulle fiancate, perfettamente equilibrata. Occorre equilibrio ed esperienza anche per salirvi sopra, ma il pescatore sembra non fare alcuna fatica a starci dritto in piedi.
E’ quasi ora di rientrare, bisogna raccogliere e ricoverare tutto nel container, caricare persone e oggetti sulle macchine e ritornare a casa dove, a turno, faremo le nostre docce in economia.
Domani, rientro a Bafatà e permanenza lì fino al 9 gennaio. Poi ci aspettano a Catiò, presso la missione di padre Maurizio Fioravanti. E pensare che Catiò è dall’altra parte del braccio di mare dove abbiamo fatto il bagno. Potrebbero essere 5 minuti di traversata in barca e un’oretta a piedi. Prima o poi ci si riuscirà.

4 gennaio 2012


Andiamo in visita a Cafal, all’estremo sud. Pochi chilometri, in termini numerici. Tanti in termini di strade e tempo. Anche qui, missione di suore. Tre in tutto, isolate e lontane dal paese, che si occupano di erbe medicinali e curano un orto appunto di queste erbe. Coltivano anche altre verdure e frutta, ma la loro attività è soprattutto quella legata alla coltivazione e trasformazione delle erbe medicinali tipiche della Guinea-Bissau: vi si ricavano antimalarici, antibiotici, protettori epatici di notevole importanza (utilizzati come collaterali alla terapia per aids), oltre a varie erbe per tisane e decotti con svariate qualità terapeutiche. Abbastanza lontane, ma in vista, a est tre case con tetto in paglia e guineani al lavoro, a ovest altre due case con tetto in paglia affiancate a strutture più occidentali (la missione protestante) e qualche mucca.
La suora più giovane di Cafal ha avanzato la richiesta di poter avere un fucile: sono tre donne sole, se succede qualcosa vuol avere l’opportunità di spaventare qualcuno sparando, solo in aria, però!
Visita agli orti, scambio di informazioni professionali fra Enrico e le suore, proposte e richieste delle suore a padre Lucio, progetti di migliorie alla casa e alla sua sicurezza, soprattutto in merito ai piccoli furti che sono sempre presenti. Riesco a partecipare anch’io, nonostante le difficoltà della lingua. Ica, invece, entra subito in sintonia e, mischiando un po’ di spagnolo e un po’ di portoghese imparaticcio, incomincia a parlare di medicina naturale e degli usi delle diverse erbe. Poco per volta incominciamo ad entrare in questo paese e ci accorgiamo di quanto poco sappiamo e quanto c’è ancora da imparare e scoprire.
Anche se in questo incontro non vi sono guineani, l’ospitalità è dello stesso stampo. Il pranzo è ricco e curato, preceduto da un aperitivo di fattura casalinga a base di artemisia. E’ un’erba locale, utilizzata non solo per aperitivi o digestivi. E’ un ottimo antibiotico, utilizzato anche dalle case farmaceutiche occidentali, molto utile nella terapia antimalarica.
Più si va in giro e più si scoprono le potenzialità di questo paese in termini di risorse naturali. Meno appariscenti o meno redditizie nel breve periodo del petrolio o delle ricchezze del sottosuolo, ma altrettanto importanti e produttrici di reddito, almeno potenzialmente. Frutta e verdura in quantità, riso e altri cereali, allevamento di animali da cortile, capre, maiali e bovini, frutta tipica di queste regioni africane, molto richiesta in occidente: mango, papaya, ananas e altro. Acqua in grande quantità. E poi una natura ancora in gran parte selvaggia e non addomesticata, che potrebbe essere un paradiso per turisti. Forse l’unica cosa che manca sono le montagne, ma per il resto c’è tutto. Cultura dell’ospitalità compresa, ma escluse le infrastrutture.

lunedì 2 gennaio 2012

2 gennaio 2012


Partiamo da Nhabijao con Enrico e Monica e ci dirigiamo a Comboni, vicino a Bafatà, alla casa di padre Lucio. Ci aspetta verso sera. Ceneremo e dormiremo lì, per poi partire il 3 verso San Francisco, a sud, all’interno della foresta. La partenza è prevista per le 6, perché a San Francisco ci aspettano per l’ora di pranzo. Sono 257 chilometri e impiegheremo fra le 4 e le 5 ore per arrivare! Questo incomincia a dare un’idea delle condizioni della strada.
L’auto a disposizione è una Toyota Land Cruiser da 4200 cc, con due/tre posti davanti e altri 8 dietro, distribuiti su quattro panche disposte lateralmente, tipo autobus.
Siamo noi 4, più padre Lucio, più 2 professori guineani che vanno a San Francisco a tenere un corso di aggiornamento a loro colleghi che insegnano alla scuola locale. 7 persone, i relativi bagagli personali e altro materiale che va portato non solo a San Francisco ma anche in altri posti dello stesso comprensorio. Nonostante la capienza dell’auto, viaggiamo un po’ stipati e stretti. Un paio di scatoloni devono restare a Comboni, perché non c’è più spazio. Non ci saranno molte soste, un po’ per non rallentare il viaggio, un po’ perché per scendere occorre fare delle effettive acrobazie. Ingenuamente, propongo che i bagagli stiano nella parte anteriore del “vano passeggeri”, in modo che i passeggeri reali abbiano un accesso facilitato alla porta posteriore. Mi viene risposto che, date le condizioni della strada, è meglio che i passeggeri stiano davanti e i bagagli dietro: i bagagli soffrono di meno!
Possiamo partire, è ancora buio e lo sarà per almeno un’altra ora. Abbiamo caricato il primo professore subito fuori la casa di padre Lucio e il secondo alle porte di Bafatà.
Il viaggio, nonostante bagagli, persone e scatoloni vari, sembra agevole: strada asfaltata, come sempre assenza di traffico e presenza di scarse persone a piedi; c’è un maggior numero di capre, maiali e polli che passano da una parte all’altra della strada, a volte di corsa, a volte con molto comodo.
Dopo un’oretta circa, si passa dall’asfalto allo sterrato. La strada però è molto ampia, ben tenuta e si può tenere una buona velocità: dietro di noi si solleva una nuvola di terra che nasconde tutto al nostro passaggio.
Dopo un’altra oretta, usciamo da quella strada sterrata e ne imbocchiamo una molto più stretta e tutt’altro che ben tenuta. Però abbiamo fatto già più di 200 chilometri, ce ne mancheranno meno di 50 per arrivare a San Francisco.
Saranno necessarie altre due ore per fare quei pochi chilometri!!
E’ più corretto dire che percorriamo una pista, con buche, avvallamenti, solchi trasversali e altro. Nella maggior parte del tragitto l’ampiezza della pista supera di poco la larghezza dell’auto, abbiamo ripiegato gli specchietti retrovisori perché non servono e rischiano di rompersi per i continui urti con canne e rami di cespugli e alberi. La velocità massima, in alcuni punti, riesce ad essere anche di 25/30 chilometri/ora, ma solo per qualche centinaio di metri; poi bisogna rallentare fin quasi a fermarsi, affrontare l’ennesima buca/solco con la corretta direzione e comportarsi come se si dovesse salire o scendere da un alto marciapiede. L’inclinazione laterale dell’auto, a volte, fa sorgere il dubbio che si possa superare il limite di rovesciamento: ma sono le normali apprensioni dei neofiti.
Sono le piogge torrenziali di luglio/settembre a creare tali avvallamenti: l’acqua scorre lungo la strada scegliendo la pendenza migliore ed erode la terra, lasciando appunto solchi, buche e avvallamenti. Poi passano auto e camion e apportano il loro contributo.
Nel tratto peggiore di strada incrociamo un’altra auto: una berlina Renault che non ha resistito e si è fermata definitivamente con il cambio rotto. Quattro ragazzi cercano di spingerla per portarla al più vicino paese, ma anche per toglierla dalla pista: ostruisce completamente il passaggio.
Con molta attenzione e entrando nel margine della foresta, riusciamo a superarla per proseguire nella nostra direzione. Il tratto di strada è anche in pendenza e i 4 ragazzi dovrebbero affrontare non solo buche e altro, ma anche la salita.
Padre Lucio decide di fare un’inversione (girare di 180 gradi 5 metri di auto in una strada sconnessa larga 5 metri e mezzo), ci impiega qualche minuto, ma alla fine ci riesce. Con una corda traina la Renault fino alla fine della salita e ne riceve un degno saluto: “Che Dio ti conceda di soddisfare i tuoi desideri”.
E con questo augurio proseguiamo e arriviamo a San Francisco, verso le 10,30. Si apre un largo spazio nella foresta e compaiono gli edifici della scuola. I professori scendono e vanno al loro lavoro. Noi, fatte altre poche centinaia di metri, ci fermiamo nello spazio antistante la “fabbrica del cajù”.
Il cajù è un albero che produce una noce al cui interno c’è il frutto, cioè l’anacardo. Questo stabilimento è il punto finale di una discreta estensione di terreno, rubato alla foresta e coltivato a cajù. Gli alberi, piantati a circa 7 metri di distanza uno dall’altro, producono ad oggi anacardi in quantità tale da riempire un container e mezzo. Sono riconosciuti di qualità molto buona e di dimensioni abbastanza grandi, proprio per le modalità di coltivazione, che permettono una maturazione completa dei frutti. I potenziali clienti hanno già avanzato richieste per un quantitativo di almeno 10 volte l’attuale, ma l’estensione del terreno non permette, ad oggi, di soddisfare tale richiesta. La soluzione di aumentare il terreno coltivato, oltre ad avere i necessari permessi per l’acquisizione e la trasformazione, presenta anche altri ostacoli. Il cajù è un albero che “assorbe” quasi totalmente il terreno su cui cresce. Se si toglie il cajù, il terreno resta improduttivo per qualsiasi altra coltivazione per parecchi anni. Poco dopo l’indipendenza, il governo dell’epoca aveva promosso la coltivazione intensiva di questa noce e il cajù, già spontaneo in tutto il paese, è stato piantato in molte zone e in modo non ordinato, producendo spesso anacardi piccoli e di limitata qualità. Molte coltivazioni sono state abbandonate e restano soltanto gli effetti negativi. Fra questi ultimi va considerata anche la produzione della “grappa” locale, ottenuta come distillato dell’involucro dell’anacardo. Ai bordi delle strade strade è sempre presente la vendita di grappa artigianale. Al centro di Nhabijao si insegna anche come ricavare un’ottima marmellata dal picciuolo del cajù (assaggiata, è veramente buona!), molto densa. Gran parte della produzione nazionale di anacardi viene oggi assorbita dall’India, che è il maggior trasformatore ed esportatore del frutto. Alcuni paventano che fra non molto l’India riuscirà a produrre sul proprio territorio le quantità di anacardi che oggi importa dalla Guinea-Bissau e la riduzione di questo commercio potrà portare ulteriore povertà. Il raggiungimento di una completa autonomia nella coltivazione, trasformazione e commercializzazione diretta all’estero dell’anacardo potrebbe, al contrario, portare grandi vantaggi all’intero paese, vista anche l’ottima qualità ottenibile.
Da  San Francisco rientriamo nella pista all’interno della foresta e ne usciamo dopo una decina di chilometri, arrivando finalmente alla casa che ci ospiterà per i prossimi tre giorni: Santa Clara.
E’ la residenza dei due soci che si occupano della fabbrica di cajù e delle rispettive famiglie, in totale una dozzina di persone, fra cui bambini fra i 10 anni e gli 8 mesi.
E’ un altro ampio spazio ricavato nella foresta, al cui centro sorge una casa tipica guineana: quadrata, a un piano, con il tetto molto spiovente ricoperto di lamiera zincata anziché di paglia. La costruzione è però molto larga, di almeno una quarantina di metri, con due larghi portoni su due lati opposti. All’interno, un porticato delimita un cortile centrale, aperto alla luce e al sole, lastricato e con una aiuola nel mezzo. Sotto il porticato si aprono le varie stanze, sia quelle delle famiglie, sia quelle destinate agli ospiti. Queste ultime sono quasi tutte dotate di bagno proprio. E qui arriva la sorpresa, non proprio piacevole. A causa di un improvviso guasto alla pompa dell’acqua, non c’è (e non ci sarà per tutta la nostra permanenza) acqua corrente nei bagni. I nostri ospiti ci hanno fatto trovare, nei bagni, taniche da 25 litri d’acqua che possiamo travasare per l’uso in secchi più comodi; per un ulteriore livello di maneggevolezza, ci hanno fornito altri secchielli, tipo quelli da spiaggia, ma con manico laterale. Ho imparato a fare doccia e shampoo, freddi, con circa quattro litri d’acqua.
L’altra particolarità è che le stanze non sono in quantità tale da soddisfare numero e composizione degli ospiti. In teoria, servirebbe una stanza a due letti per noi due, una stanza per padre Lucio, una per Enrico e una per Monica. Le camere a disposizione sono però soltanto tre, una delle quali senza bagno proprio. Aggiungendo il problema di chi russa e chi no, la soluzione è: camera con bagno per Ica e Monica, camera con bagno per padre Lucio e me, camera senza bagno per Enrico. La sistemazione di fortuna non finisce però qui. Residenza e fabbrica necessitano entrambe di energia e la sua produzione costa: 3 litri di gasolio ogni ora di attività del generatore. È ovvio che la priorità viene data alla fabbrica; il gasolio costa e il suo trasporto non è agevole, vista la pista da percorrere. Nella residenza, la luce è disponibile dalle 19 alle 23. Si può pensare che sia sufficiente: in quattro ore ci si può lavare, si cena, si fanno quattro chiacchiere o si guarda un po’ di televisione (attenzione: un solo canale ricevibile e per il resto film in dvd. Abbondano le serie di Bud Spencer/Terence Hill, in italiano, perché i bambini ne vanno matti!) e poi tutti a letto.
Ma l’architettura della Guinea-Bissau è dettata dalle condizioni climatiche: tetti molto spioventi e con falda molto sporgente, per raggiungere il doppio risultato di fornire ombra dal sole dei mesi torridi e allontanare il più possibile l’acqua piovana dai muri nei periodi delle grandi piogge. Naturalmente, l’ombra determina anche buio ben prima delle 19, ora in cui il generatore incomincia a fornire elettricità. Ma anche alla mattina la luce nelle stanze è scarsa. In pratica, soltanto fra le 10 e le 16 è possibile entrare nelle stanze godendo di una penombra che permette di vedere qualcosa. Nei bagni, che hanno finestre più alte e più piccole, la penombra è un semibuio o un buio completo. Se poi, per svariati motivi, manca qualche lampadina, allora anche nell’orario servito dal generatore, bisogna farsi la barba o la doccia usufruendo della pila, dotazione standard di ogni guineano e di ogni attento visitatore.
Terminata la descrizione della casa, piacevolissima al di là di questi inconvenienti, possiamo tornare al nostro arrivo. Abbiamo scaricato bagagli e molti dei pacchi aggiuntivi, ci siamo sistemati nelle camere e, quasi tutti, ci siamo rimessi in macchina per raggiungere altre due destinazioni, ancora più a sud di San Francisco: Bedanda e Caboxangue (“cabuscianghe”).
A Bedanda entriamo in una missione di suore (di un ordine che al momento non ricordo), che ha creato un piccolo ospedale che svolge soprattutto attività di ambulatorio e dispensario farmaceutico, con una discreta attività anche di formazione e informazione sanitaria. Un ambiente pieno di fiori, estremamente ordinato e pulito, anche negli spazi aperti, conosciutissimo e molto apprezzato nella regione. Accoglienza naturalmente molto cordiale, bibite fresche per tutti, scambi di informazioni e ragguagli sulla situazione attuale dell’ambulatorio.
A Caboxangue la missione è di un prete del vicentino. Qui si occupano di agricoltura e di scuola. Al momento è presente anche una decina di italiani, tutti provenienti dal nordest. La missione è molto ben supportata dalle diocesi di quella zona dell’Italia ed è ricchissima di materiale di vario tipo, compresi almeno un paio di efficienti trattori. Unica nota stonata, almeno per me, la presenza di una scimmia legata al guinzaglio come un cane; non bisogna avvicinarla, perché morde; la corda deve essere robusta e la lega alla vita con un complesso nodo situato dietro la schiena, perché non possa raggiungerlo per liberarsi; perché non liberarla? “perché scappa e non la prendiamo più”.
I partecipanti alla missione sono già pronti per mettersi a tavola, ma ritardano per consentirci di scambiare due chiacchiere e, naturalmente, ci offrono bibite e biscotti. Ci mettiamo d’accordo per ritrovarci tutti assieme giovedì a San Francisco, per un picnic in riva al mare.
Saluti e ritorno a Santa Clara. Il pranzo è già pronto e aspettavano soltanto noi per andare a tavola. Ma non si mangia tutti assieme. A tavola siedono soltanto gli ospiti e gli uomini di casa. I bambini hanno già mangiato e le donne mangiano intanto che cucinano. Pasto tipico della cultura portoghese-guineana: su un tavolo sono predisposti vassoi e pentole contenenti pasta condita, riso bollito al modo pilaff, pentolino con sugo (molho) per il riso, ciotole di verdura cruda di vario tipo, carne di pollo o di bovino alla brace o fritta, stessa carne ma cucinata come stufato, verdure cotte, batate fritte (non sono le nostre patate, ma più simili alle patate dolci americane), frutta in quantità. Qui troviamo anche patate tradizionali, fritte o cucinate insieme alla carne stufata. Ognuno si serve di ciò che vuole, nel modo in cui è più abituato. Guineani e portoghesi/brasiliani utilizzano pasta e riso come contorno della carne; i brasiliani iniziano con la verdura e poi proseguono con il resto. Le batate sostituiscono il pane, che in questo paese viene utilizzato quasi esclusivamente per la prima colazione. Gli italiani seguono le loro tradizioni: primo, secondo con contorno, frutta. Alcuni di loro, che vivono ormai da anni in Guinea, hanno però incominciati ad adottare il sistema di utilizzo di pasta e riso come accompagnamento del secondo.
Ogni tanto le donne portano, dalla cucina, qualche piatto aggiuntivo. Noi ospiti facciamo fatica a contribuire ad apparecchiare o sparecchiare la tavola. In sala da pranzo di queste incombenze si occupano gli uomini e tutto deve essere fatto in modo che gli ospiti siano trattati al meglio.
Questo tipo di pranzo, però, è riservato agli ospiti e ai due uomini (i capifamiglia) che tengono loro compagnia. Per gli altri, membri della famiglia o lavoranti, ciotola di riso e verdura; a volte un pezzetto di carne o pesce. Da mangiare rigorosamente con le mani, accovacciati sui loro tipici sgabelli. I bambini più piccoli vengono accuditi dai ragazzini più grandi, siano essi maschi o femmine. La cultura tradizionale, almeno dell’etnia Balanta cui appartengono i padroni di casa, prevede assunzioni di responsabilità diverse e crescenti corrispondenti a tappe di crescita secondo l’età. Questo percorso di crescita è indicato da monili o da particolari acconciature dei capelli, per entrambi i sessi.
Molti gli aspetti differenti fra la nostra e la loro cultura; molti gli aspetti simili; molte le tradizioni un tempo presenti anche fra noi, pur se declinate in modo diverso. A guardar bene, sono probabilmente più i tratti comuni che quelli totalmente diversi; alcuni di essi sono simili ma in epoche differenti. Una cosa è assolutamente uguale: i bambini, che ancora in tutti i paesi subiscono di meno i condizionamenti della società che li circonda, sono sempre uguali ad ogni latitudine e in ogni paese. Fanno i capricci, ridono per poco, ti sono subito amici, aspettano un sorriso e si accoccolano volentieri di fianco a te. Giocano nello stesso modo. Ho rivisto bambini correre per strada dietro a un cerchione di bicicletta, spinto in avanti con un bastone e altri bambini saltare la corda cantando cantilene molto simili alle nostre. Anche i “bambini” più grandi sono uguali. Quasi dappertutto c’è un campo di calcio o qualcosa che gli assomiglia e quasi sempre si possono vedere bambini e ragazzi che corrono dietro a una palla.