Partiamo da Nhabijao con Enrico e Monica e ci dirigiamo a Comboni, vicino a Bafatà, alla casa di padre Lucio. Ci aspetta verso sera. Ceneremo e dormiremo lì, per poi partire il 3 verso San Francisco, a sud, all’interno della foresta. La partenza è prevista per le 6, perché a San Francisco ci aspettano per l’ora di pranzo. Sono 257 chilometri e impiegheremo fra le 4 e le 5 ore per arrivare! Questo incomincia a dare un’idea delle condizioni della strada.
L’auto a disposizione è una Toyota Land Cruiser da 4200 cc, con due/tre posti davanti e altri 8 dietro, distribuiti su quattro panche disposte lateralmente, tipo autobus.
Siamo noi 4, più padre Lucio, più 2 professori guineani che vanno a San Francisco a tenere un corso di aggiornamento a loro colleghi che insegnano alla scuola locale. 7 persone, i relativi bagagli personali e altro materiale che va portato non solo a San Francisco ma anche in altri posti dello stesso comprensorio. Nonostante la capienza dell’auto, viaggiamo un po’ stipati e stretti. Un paio di scatoloni devono restare a Comboni, perché non c’è più spazio. Non ci saranno molte soste, un po’ per non rallentare il viaggio, un po’ perché per scendere occorre fare delle effettive acrobazie. Ingenuamente, propongo che i bagagli stiano nella parte anteriore del “vano passeggeri”, in modo che i passeggeri reali abbiano un accesso facilitato alla porta posteriore. Mi viene risposto che, date le condizioni della strada, è meglio che i passeggeri stiano davanti e i bagagli dietro: i bagagli soffrono di meno!
Possiamo partire, è ancora buio e lo sarà per almeno un’altra ora. Abbiamo caricato il primo professore subito fuori la casa di padre Lucio e il secondo alle porte di Bafatà.
Il viaggio, nonostante bagagli, persone e scatoloni vari, sembra agevole: strada asfaltata, come sempre assenza di traffico e presenza di scarse persone a piedi; c’è un maggior numero di capre, maiali e polli che passano da una parte all’altra della strada, a volte di corsa, a volte con molto comodo.
Dopo un’oretta circa, si passa dall’asfalto allo sterrato. La strada però è molto ampia, ben tenuta e si può tenere una buona velocità: dietro di noi si solleva una nuvola di terra che nasconde tutto al nostro passaggio.
Dopo un’altra oretta, usciamo da quella strada sterrata e ne imbocchiamo una molto più stretta e tutt’altro che ben tenuta. Però abbiamo fatto già più di 200 chilometri, ce ne mancheranno meno di 50 per arrivare a San Francisco.
Saranno necessarie altre due ore per fare quei pochi chilometri!!
E’ più corretto dire che percorriamo una pista, con buche, avvallamenti, solchi trasversali e altro. Nella maggior parte del tragitto l’ampiezza della pista supera di poco la larghezza dell’auto, abbiamo ripiegato gli specchietti retrovisori perché non servono e rischiano di rompersi per i continui urti con canne e rami di cespugli e alberi. La velocità massima, in alcuni punti, riesce ad essere anche di 25/30 chilometri/ora, ma solo per qualche centinaio di metri; poi bisogna rallentare fin quasi a fermarsi, affrontare l’ennesima buca/solco con la corretta direzione e comportarsi come se si dovesse salire o scendere da un alto marciapiede. L’inclinazione laterale dell’auto, a volte, fa sorgere il dubbio che si possa superare il limite di rovesciamento: ma sono le normali apprensioni dei neofiti.
Sono le piogge torrenziali di luglio/settembre a creare tali avvallamenti: l’acqua scorre lungo la strada scegliendo la pendenza migliore ed erode la terra, lasciando appunto solchi, buche e avvallamenti. Poi passano auto e camion e apportano il loro contributo.
Nel tratto peggiore di strada incrociamo un’altra auto: una berlina Renault che non ha resistito e si è fermata definitivamente con il cambio rotto. Quattro ragazzi cercano di spingerla per portarla al più vicino paese, ma anche per toglierla dalla pista: ostruisce completamente il passaggio.
Con molta attenzione e entrando nel margine della foresta, riusciamo a superarla per proseguire nella nostra direzione. Il tratto di strada è anche in pendenza e i 4 ragazzi dovrebbero affrontare non solo buche e altro, ma anche la salita.
Padre Lucio decide di fare un’inversione (girare di 180 gradi 5 metri di auto in una strada sconnessa larga 5 metri e mezzo), ci impiega qualche minuto, ma alla fine ci riesce. Con una corda traina la Renault fino alla fine della salita e ne riceve un degno saluto: “Che Dio ti conceda di soddisfare i tuoi desideri”.
E con questo augurio proseguiamo e arriviamo a San Francisco, verso le 10,30. Si apre un largo spazio nella foresta e compaiono gli edifici della scuola. I professori scendono e vanno al loro lavoro. Noi, fatte altre poche centinaia di metri, ci fermiamo nello spazio antistante la “fabbrica del cajù”.
Il cajù è un albero che produce una noce al cui interno c’è il frutto, cioè l’anacardo. Questo stabilimento è il punto finale di una discreta estensione di terreno, rubato alla foresta e coltivato a cajù. Gli alberi, piantati a circa 7 metri di distanza uno dall’altro, producono ad oggi anacardi in quantità tale da riempire un container e mezzo. Sono riconosciuti di qualità molto buona e di dimensioni abbastanza grandi, proprio per le modalità di coltivazione, che permettono una maturazione completa dei frutti. I potenziali clienti hanno già avanzato richieste per un quantitativo di almeno 10 volte l’attuale, ma l’estensione del terreno non permette, ad oggi, di soddisfare tale richiesta. La soluzione di aumentare il terreno coltivato, oltre ad avere i necessari permessi per l’acquisizione e la trasformazione, presenta anche altri ostacoli. Il cajù è un albero che “assorbe” quasi totalmente il terreno su cui cresce. Se si toglie il cajù, il terreno resta improduttivo per qualsiasi altra coltivazione per parecchi anni. Poco dopo l’indipendenza, il governo dell’epoca aveva promosso la coltivazione intensiva di questa noce e il cajù, già spontaneo in tutto il paese, è stato piantato in molte zone e in modo non ordinato, producendo spesso anacardi piccoli e di limitata qualità. Molte coltivazioni sono state abbandonate e restano soltanto gli effetti negativi. Fra questi ultimi va considerata anche la produzione della “grappa” locale, ottenuta come distillato dell’involucro dell’anacardo. Ai bordi delle strade strade è sempre presente la vendita di grappa artigianale. Al centro di Nhabijao si insegna anche come ricavare un’ottima marmellata dal picciuolo del cajù (assaggiata, è veramente buona!), molto densa. Gran parte della produzione nazionale di anacardi viene oggi assorbita dall’India, che è il maggior trasformatore ed esportatore del frutto. Alcuni paventano che fra non molto l’India riuscirà a produrre sul proprio territorio le quantità di anacardi che oggi importa dalla Guinea-Bissau e la riduzione di questo commercio potrà portare ulteriore povertà. Il raggiungimento di una completa autonomia nella coltivazione, trasformazione e commercializzazione diretta all’estero dell’anacardo potrebbe, al contrario, portare grandi vantaggi all’intero paese, vista anche l’ottima qualità ottenibile.
Da San Francisco rientriamo nella pista all’interno della foresta e ne usciamo dopo una decina di chilometri, arrivando finalmente alla casa che ci ospiterà per i prossimi tre giorni: Santa Clara.
E’ la residenza dei due soci che si occupano della fabbrica di cajù e delle rispettive famiglie, in totale una dozzina di persone, fra cui bambini fra i 10 anni e gli 8 mesi.
E’ un altro ampio spazio ricavato nella foresta, al cui centro sorge una casa tipica guineana: quadrata, a un piano, con il tetto molto spiovente ricoperto di lamiera zincata anziché di paglia. La costruzione è però molto larga, di almeno una quarantina di metri, con due larghi portoni su due lati opposti. All’interno, un porticato delimita un cortile centrale, aperto alla luce e al sole, lastricato e con una aiuola nel mezzo. Sotto il porticato si aprono le varie stanze, sia quelle delle famiglie, sia quelle destinate agli ospiti. Queste ultime sono quasi tutte dotate di bagno proprio. E qui arriva la sorpresa, non proprio piacevole. A causa di un improvviso guasto alla pompa dell’acqua, non c’è (e non ci sarà per tutta la nostra permanenza) acqua corrente nei bagni. I nostri ospiti ci hanno fatto trovare, nei bagni, taniche da 25 litri d’acqua che possiamo travasare per l’uso in secchi più comodi; per un ulteriore livello di maneggevolezza, ci hanno fornito altri secchielli, tipo quelli da spiaggia, ma con manico laterale. Ho imparato a fare doccia e shampoo, freddi, con circa quattro litri d’acqua.
L’altra particolarità è che le stanze non sono in quantità tale da soddisfare numero e composizione degli ospiti. In teoria, servirebbe una stanza a due letti per noi due, una stanza per padre Lucio, una per Enrico e una per Monica. Le camere a disposizione sono però soltanto tre, una delle quali senza bagno proprio. Aggiungendo il problema di chi russa e chi no, la soluzione è: camera con bagno per Ica e Monica, camera con bagno per padre Lucio e me, camera senza bagno per Enrico. La sistemazione di fortuna non finisce però qui. Residenza e fabbrica necessitano entrambe di energia e la sua produzione costa: 3 litri di gasolio ogni ora di attività del generatore. È ovvio che la priorità viene data alla fabbrica; il gasolio costa e il suo trasporto non è agevole, vista la pista da percorrere. Nella residenza, la luce è disponibile dalle 19 alle 23. Si può pensare che sia sufficiente: in quattro ore ci si può lavare, si cena, si fanno quattro chiacchiere o si guarda un po’ di televisione (attenzione: un solo canale ricevibile e per il resto film in dvd. Abbondano le serie di Bud Spencer/Terence Hill, in italiano, perché i bambini ne vanno matti!) e poi tutti a letto.
Ma l’architettura della Guinea-Bissau è dettata dalle condizioni climatiche: tetti molto spioventi e con falda molto sporgente, per raggiungere il doppio risultato di fornire ombra dal sole dei mesi torridi e allontanare il più possibile l’acqua piovana dai muri nei periodi delle grandi piogge. Naturalmente, l’ombra determina anche buio ben prima delle 19, ora in cui il generatore incomincia a fornire elettricità. Ma anche alla mattina la luce nelle stanze è scarsa. In pratica, soltanto fra le 10 e le 16 è possibile entrare nelle stanze godendo di una penombra che permette di vedere qualcosa. Nei bagni, che hanno finestre più alte e più piccole, la penombra è un semibuio o un buio completo. Se poi, per svariati motivi, manca qualche lampadina, allora anche nell’orario servito dal generatore, bisogna farsi la barba o la doccia usufruendo della pila, dotazione standard di ogni guineano e di ogni attento visitatore.
Terminata la descrizione della casa, piacevolissima al di là di questi inconvenienti, possiamo tornare al nostro arrivo. Abbiamo scaricato bagagli e molti dei pacchi aggiuntivi, ci siamo sistemati nelle camere e, quasi tutti, ci siamo rimessi in macchina per raggiungere altre due destinazioni, ancora più a sud di San Francisco: Bedanda e Caboxangue (“cabuscianghe”).
A Bedanda entriamo in una missione di suore (di un ordine che al momento non ricordo), che ha creato un piccolo ospedale che svolge soprattutto attività di ambulatorio e dispensario farmaceutico, con una discreta attività anche di formazione e informazione sanitaria. Un ambiente pieno di fiori, estremamente ordinato e pulito, anche negli spazi aperti, conosciutissimo e molto apprezzato nella regione. Accoglienza naturalmente molto cordiale, bibite fresche per tutti, scambi di informazioni e ragguagli sulla situazione attuale dell’ambulatorio.
A Caboxangue la missione è di un prete del vicentino. Qui si occupano di agricoltura e di scuola. Al momento è presente anche una decina di italiani, tutti provenienti dal nordest. La missione è molto ben supportata dalle diocesi di quella zona dell’Italia ed è ricchissima di materiale di vario tipo, compresi almeno un paio di efficienti trattori. Unica nota stonata, almeno per me, la presenza di una scimmia legata al guinzaglio come un cane; non bisogna avvicinarla, perché morde; la corda deve essere robusta e la lega alla vita con un complesso nodo situato dietro la schiena, perché non possa raggiungerlo per liberarsi; perché non liberarla? “perché scappa e non la prendiamo più”.
I partecipanti alla missione sono già pronti per mettersi a tavola, ma ritardano per consentirci di scambiare due chiacchiere e, naturalmente, ci offrono bibite e biscotti. Ci mettiamo d’accordo per ritrovarci tutti assieme giovedì a San Francisco, per un picnic in riva al mare.
Saluti e ritorno a Santa Clara. Il pranzo è già pronto e aspettavano soltanto noi per andare a tavola. Ma non si mangia tutti assieme. A tavola siedono soltanto gli ospiti e gli uomini di casa. I bambini hanno già mangiato e le donne mangiano intanto che cucinano. Pasto tipico della cultura portoghese-guineana: su un tavolo sono predisposti vassoi e pentole contenenti pasta condita, riso bollito al modo pilaff, pentolino con sugo (molho) per il riso, ciotole di verdura cruda di vario tipo, carne di pollo o di bovino alla brace o fritta, stessa carne ma cucinata come stufato, verdure cotte, batate fritte (non sono le nostre patate, ma più simili alle patate dolci americane), frutta in quantità. Qui troviamo anche patate tradizionali, fritte o cucinate insieme alla carne stufata. Ognuno si serve di ciò che vuole, nel modo in cui è più abituato. Guineani e portoghesi/brasiliani utilizzano pasta e riso come contorno della carne; i brasiliani iniziano con la verdura e poi proseguono con il resto. Le batate sostituiscono il pane, che in questo paese viene utilizzato quasi esclusivamente per la prima colazione. Gli italiani seguono le loro tradizioni: primo, secondo con contorno, frutta. Alcuni di loro, che vivono ormai da anni in Guinea, hanno però incominciati ad adottare il sistema di utilizzo di pasta e riso come accompagnamento del secondo.
Ogni tanto le donne portano, dalla cucina, qualche piatto aggiuntivo. Noi ospiti facciamo fatica a contribuire ad apparecchiare o sparecchiare la tavola. In sala da pranzo di queste incombenze si occupano gli uomini e tutto deve essere fatto in modo che gli ospiti siano trattati al meglio.
Questo tipo di pranzo, però, è riservato agli ospiti e ai due uomini (i capifamiglia) che tengono loro compagnia. Per gli altri, membri della famiglia o lavoranti, ciotola di riso e verdura; a volte un pezzetto di carne o pesce. Da mangiare rigorosamente con le mani, accovacciati sui loro tipici sgabelli. I bambini più piccoli vengono accuditi dai ragazzini più grandi, siano essi maschi o femmine. La cultura tradizionale, almeno dell’etnia Balanta cui appartengono i padroni di casa, prevede assunzioni di responsabilità diverse e crescenti corrispondenti a tappe di crescita secondo l’età. Questo percorso di crescita è indicato da monili o da particolari acconciature dei capelli, per entrambi i sessi.
Molti gli aspetti differenti fra la nostra e la loro cultura; molti gli aspetti simili; molte le tradizioni un tempo presenti anche fra noi, pur se declinate in modo diverso. A guardar bene, sono probabilmente più i tratti comuni che quelli totalmente diversi; alcuni di essi sono simili ma in epoche differenti. Una cosa è assolutamente uguale: i bambini, che ancora in tutti i paesi subiscono di meno i condizionamenti della società che li circonda, sono sempre uguali ad ogni latitudine e in ogni paese. Fanno i capricci, ridono per poco, ti sono subito amici, aspettano un sorriso e si accoccolano volentieri di fianco a te. Giocano nello stesso modo. Ho rivisto bambini correre per strada dietro a un cerchione di bicicletta, spinto in avanti con un bastone e altri bambini saltare la corda cantando cantilene molto simili alle nostre. Anche i “bambini” più grandi sono uguali. Quasi dappertutto c’è un campo di calcio o qualcosa che gli assomiglia e quasi sempre si possono vedere bambini e ragazzi che corrono dietro a una palla.
Spero di non essere scomunicato, ma: Blog della Madonna!
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