Oggi è il giorno del picnic con i guineani che ci ospitano.
Gli italiani di Caboxangue ci hanno fatto sapere che non saranno presenti, per lieve malattia di due di loro. Preferiscono accertarsi che i disturbi non siano prodromi di qualcosa di serio e porteranno i loro compagni all’ospedale per le visite del caso.
In macchina percorriamo una decina di chilometri prima fra le piantagioni di cajù e poi in mezzo alla foresta e arriviamo in riva al “Rio”. Non è un fiume, ma un’insenatura molto stretta, simile a un fiordo, nella quale si insinua il mare.
Lì è già presente, dalla notte, il pescatore che fa il suo normale lavoro e al quale è stato prenotato il pesce per il nostro pranzo.
La pesca è stata molto favorevole. Su un alto letto di rami secchi, costruito sopra un fuoco alimentato da altra legna, con poche fiamme e molto fumo, sono deposti una trentina di pesci di medie dimensioni. Si stanno lentamente affumicando, in modo da poterli conservare per il viaggio che dovranno fare fino al mercato più conveniente, dove saranno venduti senza l’assillo che vadano a male.
Appoggiati per terra, un’altra trentina di pesci di differenti dimensioni. Ce ne sono un paio che hanno lunghezza di circa un metro, altri, la maggioranza, simili ad orate o cernie, con peso medio di un chilo/un chilo e mezzo. Molto carnosi, con squame grandi quanto l’unghia di un pollice. C’è anche una piccola razza.
I guineani scelgono gli esemplari più adatti al nostro picnic, in totale una mezza dozzina, e incominciano a pulirli.
Le donne, intanto, preparano i bracieri. Tutto viene preparato lì sul posto: il riso, la pasta al sugo, il pesce. Le uniche cose portate da casa: bibite e acqua fresca.
Naturalmente, noi esploriamo il luogo e scattiamo fotografie (ve le faremo vedere al nostro ritorno!).
Il posto scelto per il picnic è lontano una cinquantina di metri dal bagnasciuga, sotto l’ombra di un poilon e di un mango. Il posto è utilizzato abitualmente dalle due famiglie e lì vicino c’è un vecchio container, dal quale vengono presi tavolini e sedie per quasi tutti.
L’ora è quella della bassa marea. Fra bassa e alta marea la linea del bagnasciuga varia di una ventina di metri. Proviamo ad arrivare all’acqua, ma è molto difficoltoso. Bisogna indossare sandali legati ai piedi: la fanghiglia è tale da ricoprire a volte l’intero piede e camminare scalzi non è consigliabile per la presenza di valve rotte di ostriche, molto taglienti. Provare ad addentrarsi con semplici ciabatte è un’illusione: fatti pochi passi, la ciabatta resta incollata al terreno e il piede non riesce a sollevarla. Per questo sono indispensabili sandali chiusi. Il pescatore, ovviamente, calza degli alti stivali. I bambini, invece, corrono a piedi nudi, come se niente fosse.
I più esperti sono già in acqua: fondale basso, molti metri da percorrere prima di arrivare a non toccare il fondo, distanza della riva opposta di circa trecento metri. Credo che, riuscendo ad entrare in acqua, si potrebbe arrivare dall’altra parte senza grosse difficoltà. Però c’è una discreta corrente che spinge verso l’interno.
Noi italiani, escluso padre Lucio, rinunciamo al bagno.
La riva è piena di mangrovie e la conformazione del terreno dimostra che, secondo le condizioni climatiche, l’alta marea o eventuali mareggiate possono addentrarsi anche di 50/70 metri. Questa fascia è piena di conchiglie, rimaste sulla spiaggia dopo il ritirarsi del mare. I guineani evidentemente a volte fanno un po’ di ordine: in alcuni punti, infatti, ci sono monticelli di conchiglie, larghi 5/6 metri e alti circa mezzo metro.
Oltre alle mangrovie, che vivono proprio in riva al mare e sopportano l’acqua salata, a chiazze vi sono tappeti di piante grasse e altre erbe. Poi ricomincia la foresta, con piante di ogni tipo e di ogni grandezza.
Sui bracieri stanno arrostendo i pesci, tagliati in tranci per maggior comodità. Ogni trancio è spesso tre/quattro dita. Incomincia ad esserci un po’ di impazienza e di acquolina in bocca.
Il pranzo è pronto, il pesce è ottimo, sodo e saporito, la compagnia è eccellente, il posto è inimitabile, il tempo stupendo.
Normale abbocco pomeridiano, ricerca dell’ombra e della posizione più comoda, bimbi piccoli che vengono accomodati all’ombra e dormono beatamente.
Intanto sale l’alta marea e l’acqua copre la parte di spiaggia che prima era più cedevole e fangosa. Forse si può riprovare ad entrare in mare.
E in effetti ci riesco. Anche l’acqua è piacevole, inizialmente freddino, ma poi accettabilissima. La corrente si fa sentire, bisogna muoversi sempre per restare in linea con il punto di approdo. In acqua, oltre a me, ci sono padre Lucio, Enrico e i bambini. Sono quelli che si trovano meglio.
La canoa del pescatore è un tronco tagliato a metà, scavato e sagomato. E’ senza dubbio il sistema più economico e più immediato per avere un mezzo utile alla pesca. E non è certamente arretratezza. Le reti, infatti, sono di nylon con galleggianti in plastica. Ma la canoa è affascinante: affusolata, con i segni del machete sulle fiancate, perfettamente equilibrata. Occorre equilibrio ed esperienza anche per salirvi sopra, ma il pescatore sembra non fare alcuna fatica a starci dritto in piedi.
E’ quasi ora di rientrare, bisogna raccogliere e ricoverare tutto nel container, caricare persone e oggetti sulle macchine e ritornare a casa dove, a turno, faremo le nostre docce in economia.
Domani, rientro a Bafatà e permanenza lì fino al 9 gennaio. Poi ci aspettano a Catiò, presso la missione di padre Maurizio Fioravanti. E pensare che Catiò è dall’altra parte del braccio di mare dove abbiamo fatto il bagno. Potrebbero essere 5 minuti di traversata in barca e un’oretta a piedi. Prima o poi ci si riuscirà.
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